La città che vorrei: provocazioni, polemiche e qualche (buon) consiglio da chi ha guidato la Biennale fino al 2020
Nel campo della produzione culturale, Venezia già possiede un apparato di soggetti di gran lunga superiore a quelle che possono essere le «esigenze» locali. L’apparato esistente ha già il mondo come riferimento. Il miglio «serenissimo» (in realtà un miglio e mezzo), che va da Ca’ Foscari a Palazzo Grassi, a Ca’ Rezzonico, all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, all’Accademia, alla Guggenheim e, passando per la Fenice, va alla Punta della Dogana, alla Biennale, alla Fondazione Cini, alla Marciana, ai Musei Civici e ai Giardini della Biennale (e tralascio i vari détours che si potrebbero fare, come quello che include lo Iuav), collega un complesso di attività culturali degno di una grande metropoli mondiale piuttosto che di una città (o di un’area metropolitana) di decine o anche centinaia di migliaia di abitanti (un fatto caratteristico della sfida che pone Venezia è che tutto è o troppo piccolo o troppo grande!). Tutti questi soggetti, anche quando soddisfano esigenze locali, è su questa scala che già operano, è su questa scala che probabilmente possono darsi prospettive di un’ulteriore dilatazione del loro valore aggiunto. In primo luogo, proprio la stessa Biennale. Il suo progetto di ampliamento delle strutture dell’Arsenale per ospitare sia l’Archivio Storico, sia altre attività di ricerca e produzione, insieme al progetto College già da tempo sperimentato, di per sé rappresenta un’ulteriore aggiunta alla crescita delle attività correnti, un impegno per il prossimo quinquennio.
Per gli altri soggetti che già hanno mostrato dinamismo, mi limito ad alcune riflessioni esemplificative per chiarire cosa intendo dire in linea generale, riflessioni che non vogliono essere un atto di intromissione, ma semmai segno di stima per le doti di chi li guida.
Un primo esempio può essere offerto dalla Fondazione Cini. Dopo gli interventi sull’isola di San Giorgio, effettuati usando schemi non dissimili da quelli messi in essere dalla Biennale per l’Arsenale, e parallelamente alla cura per le sue collezioni e agli studi, potrebbe riprendere il secondo campo della missione che le affidò il suofondatore e che è stato abbandonato da decenni: la cura della formazione professionale delle nuove generazioni, ovviamente guardando al futuro e in modo nuovo. Una vasta area di possibili iniziative.
La Fenice si è rinnovata profondamente in questi anni nella sua gestione ed è oggi una delle fondazioni liriche italiane meglio gestite. Nulla vieta, neppure nello statuto, di intraprendere missioni nuove nel campo della musica: Salisburgo ha creato a fianco del Festival il Mozarteum, a Milano la Scala ha dato vita a un’accademia.
Penso poi alle Gallerie dell’Accademia, che sono state oggetto della recente riforma dei musei dello Stato e sono state dotate di un maggior grado di autonomia. Teoricamente, ma non astrattamente, dunque, si può pensare di andare oltre nella stessa direzione. Anch’essa ha quanto occorre come premessa per impostare progetti nel campo delle arti, della storia dell’arte, della formazione e della ricerca. Sarebbe il vero coronamento della riforma dei musei intrapresa nel 2015.
Se veniamo alle attività di alta formazione già presenti e in crescita di qualità, diciamo subito che l’osservatore esterno, già esterrefatto nel vedere che amministrazioni dello Stato abbandonano la città lagunare, difficilmente capisce come sia potuto succedere che anche l’Università di Venezia abbia delocalizzato a Mestre. E che ciò sia avvenuto nel silenzio della città e degli stessi studenti o insegnanti. Appare persino banale pensare al centro storico di Venezia come luogo ideale per accogliere attività formative. Ma al di là delle responsabilità, sorge il dubbio che le norme generali sull’Università siano addirittura complici e offrano alibi per obiettivi quantitativi. […]
Sempre la storia recente della Biennale insegna che solo il cambiamento netto dello statuto, con il superamento del suo vecchio carattere di azienda parastatale e l’acquisizione del carattere di soggetto pubblico imprenditoriale, l’ha resa capace di individuare le soluzioni più appropriate per il suo futuro a Venezia. Se questa via appare complessa, resta pur sempre la prospettiva di attivare nuovi istituti specializzati di formazione e ricerca in campi affini, complementari o anche non presenti nei sistemi universitari attuali.
È un dato di fatto, e la Biennale lo conferma, che chi svolge attività di alta qualità e ad ampio raggio può rendere relativamente meno onerosi gli inconvenienti frapposti dalla struttura urbana e valorizzare la straordinarietà del luogo, e può anche immaginare di svolgerle con qualche grado di autosufficienza economica. Questo vale anche per le attività formative e di ricerca speciali, e non solo per quelle pubbliche. […]
Venezia, come tutte le grandi realtà in decadenza che sanno di godere di eccezionale notorietà e dell’attenzione di tanti ammiratori e amanti sparsi per il mondo, lancia continue mosse diversive, mostra scalfitture e ferite che suscitano clamore, ma che nascondono quelle più profonde. Così un incidente in Canal Grande, tra una gondola e un taxi, ottiene il grido della stampa mondiale, della stampa di metropoli nelle quali incidenti tra mezzi di trasporto si verificano a decine al giorno. Così la stessa questione delle grandi navi, che oggi domina e che genera giuste reazioni contrarie, ma che, alla fine, durerà al più qualche decennio della lunga storia della città, serve anche per occultare il ben più grave problema dell’esodo di attività terziarie non legate al turismo, che passa sotto silenzio ed è una piaga ben più letale. E che è grave come il temibile innalzamento del livello del mare, che potrà porre problemi e costringere a immaginare interventi che non possono essere oggetto di considerazione in questa sede, ma che dovranno essere sempre accompagnati da iniziative quali quelle qui considerate.
Per vietare o ostacolare basta un movimento, per costruire occorre una cultura di governo delle trasformazioni. Venezia c’è perché in passato ha saputo trasformarsi con sapiente cultura urbana. I tanti giovani che vistosamente manifestano contro singoli fenomeni, dimostrando con ciò sensibilità al bene pubblico, sappiano dilatare la loro prospettiva in quella più ampia, ma più complessa, delle necessarie misure e trasformazioni che occorrono per mantenere una vita urbana articolata (la sua biodiversità) e non solo il nitore della property, perché è questa la cultura che rende viva una città e proprio questa è la fiamma in maggior pericolo di spegnimento a Venezia.
La storia moderna di Venezia è troppo spesso presentata come storia di aggressioni; è stata anche una storia di omissioni.
La pandemia in corso ha mostrato una Venezia vuota, la caduta del turismo genera effetti clamorosi. Far ripartire l’economia, e quindi anche il turismo, è un obiettivo primario. C’è da chiedersi se non sia questa l’occasione per impostare un futuro meglio governato e meno preda delle spontanee ondate di turisti che prima o poi torneranno, in un mondo che avrà ancora più bisogno di riconquistare a proprio piacere gli incantevoli spazi che furono lasciati deserti nel corso della forzata immobilità.
Con quanto fatto dalla Biennale in questi anni abbiamo dimostrato anche che a Venezia molto si può fare. Se ne tenga conto e lo si usi come incoraggiamento.
Paolo Baratta
Tratto dal libro Il Giardino e l’Arsenale. Una storia della Biennale, Marsilio Editori, Venezia 2021
BIO
Paolo Baratta, laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano e in Economia a Cambridge, vanta una lunga serie di incarichi nel settore pubblico e privato. Più volte ministro tecnico alla guida di vari dicasteri – nel primo governo Amato per il riordinamento delle Partecipazioni statali, poi del Commercio con l’estero nel governo Ciampi, dei Lavori pubblici e dell’Ambiente nel governo Dini –, è stato presidente della Biennale di Venezia dal 1998 al 2001 e dal 2008 al 2020.
Foto cover: Corderie. Photo Giulio Squillacciotti. Courtesy La Biennale di Venezia
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