Alzi la mano chi si è domandato almeno una volta “a cosa serve l’arte?”. A rispondere a questo e a molti altri interrogativi è Hans Ulrich Obrist nel suo libro scritto a quattro mani con Gianluigi Ricuperati e in questa intervista
Se fosse un’opera sarebbe un giardino o comunque un organismo vivo, come lo spazio in cui si muovono le sculture viventi di Tino Sehgal. È infatti la vitalità dell’arte quella che da sempre cerca e appassiona il curatore Hans Ulrich Obrist, classe 1968, direttore della Serpentine Gallery di Londra e autore di migliaia di interviste. Una vitalità che si manifesta nelle connessioni tra più discipline e che nel tempo è diventata il filo conduttore della sua pratica artistica.
La storia del suo percorso curatoriale è raccontata nel libro A che cosa serve l’arte, in una lunga e originale conversazione con lo scrittore e curatore Gianluigi Ricuperati. Nove capitoli e un piccolo glossario obristiano accompagnano il lettore in un viaggio fatto di aneddoti, citazioni e riflessioni sulla capacità dell’arte di trasformare e dare speranza. Dalle prime mostre realizzate nelle cucine all’esperienza della Serpentine Gallery, Obrist ricorda personaggi, libri, incontri che lo hanno portato a diventare una delle personalità più influenti nel mondo dell’arte, con uno sguardo sempre rivolto al futuro. In occasione della prima presentazione, avvenuta a Le Stanze della Fotografia di Venezia, l’autore ci ha parlato di arte, connessioni e contemporaneità.
Cosa pensa degli attivisti che imbrattano le opere d’arte per portare l’attenzione sui cambiamenti climatici e sul futuro del pianeta?
La motivazione è giusta e sono d’accordo sull’urgenza di portare l’attenzione sulle questioni che gli attivisti rivendicano, come quella relativa ai cambiamenti climatici e alla necessità di fare qualcosa per salvare il pianeta. Tuttavia, non credo che imbrattare le opere d’arte sia la soluzione. L’arte, anzi, può contribuire al dibattito sul cambiamento climatico per la sua capacità di creare empatia.
Ci può fare qualche esempio?
Penso al filosofo Timothy Morton, che ha promosso molte campagne artistiche per l’ambiente e ha utilizzato l’arte proprio per comunicare al pubblico questioni urgenti, collegate al cambiamento climatico. È qualcosa che noi abbiamo fatto e continuiamo a fare alla Serpentine Gallery, per esempio con il progetto Back to Earth, iniziato nel 2019, che invita a dare risposte artistiche all’emergenza climatica attraverso mostre e dibattiti. Oppure penso alla call to action Remember Nature di Gustav Metzger, l’artista visionario scomparso qualche anno fa, che ha messo al centro della sua attività per decenni i temi dell’ambiente e dell’estinzione. In Remember Nature Metzger ha sollecitato professionisti dell’arte e studenti di tutte le discipline a creare nuove opere per “ricordare la natura”, affrontando temi globali come l’estinzione, il cambiamento climatico e l’inquinamento ambientale. Questo nuovo modo di fare arte spinge a una riflessione su come cambia lo status dell’opera d’arte, che non è più soltanto essere presente in una mostra o in un evento, ma anche quello di realizzare un progetto di lunga durata. Un esempio è il Pollinator Pathmaker di Alexandra Daisy Ginsberg. L’artista, utilizzando un algoritmo dell’intelligenza artificiale, ha realizzato un giardino per gli insetti impollinatori in estinzione ed esplora temi come la biologia sintetica e la biodiversità. È il progetto più grande al mondo di arte positiva per riflettere sul cambiamento climatico. Iniziato come a Eden Project in Cornovaglia, il lavoro è stato poi commissionato dalla Serpentine Gallery per i Kensington Gardens. L’installazione include 4471 piante e 60 specie ed è aperta al pubblico proprio per incoraggiarlo a familiarizzare con le piante. Un esempio si può anche vedere sul sito. Penso quindi che l’idea di arte includa la possibilità di essere un attivista dell’ambiente naturale che ci circonda, come ha sempre detto Édouard Glissant nella sua chiamata per una poetica dell’ecologia.
La sua vita potrebbe essere paragonata a un’opera d’arte?
Ci sono opinioni differenti su questo. Stefano Boeri ha scritto un testo sulla mia vita come performer artist. Ho sempre trovato questa cosa molto divertente, ma io non lo direi perché, come ho anche spiegato nel libro, per me si tratta di una pratica volta a creare connessioni. Direi che quello che è davvero importante nella mia pratica artistica [in che senso?] non riguarda soltanto l’arte, ma quello che c’è nell’arte, nella letteratura e nella musica e in tutti i campi. Come diceva Etel Adnan, per me creare connessioni è anche creare connessioni tra diversi settori in un’ottica di inclusività e non di separazione, di un futuro insieme e non da soli, specialmente in un’epoca polarizzata come quella attuale.
Se fosse un’opera d’arte, quale sarebbe?
Come sapete, il mio lavoro si basa sulle conversazioni e quindi credo che mi piacerebbe essere un’opera di Tino Sehgal che lavora con le Constructed Situations. Nel 2007 lui coinvolse un gruppo di intellettuali e pensatori in uno spazio vuoto di una galleria, facendoli interagire tra loro e con il pubblico attraverso dibattiti e citazioni. È materiale vivo, sono sculture viventi e per questo mi piacerebbe essere questa situazione. Se invece dovessi pensare a un oggetto, direi che sono molto affascinato dallo Snowman di Fischli & Weiss, ma credo che l’esempio di Sehgal sia quello che mi riflette di più perché si basa anche sulla mia pratica di conversazione. Sarebbe difficile per me non pensare a una situazione viva, perché significherebbe essere congelati e non evolversi. Penso anche che potrei essere un’opera digitale, come Bob di Ian Chang basata sull’intelligenza artificiale e sulle simulazioni dal vivo. Qui c’è l’idea che l’opera d’arte diventi un organismo vivente, che continui a evolversi e a cambiare. È connessa alla mia prossima mostra che aprirà a giugno 2023, Worldbuilding: Gaming and Art in the Digital Age al Centre Pompidou-Metz, iniziata alla Julia Stoschek Collection di Düsseldorf. Ho coinvolto un gruppo di artisti che lavora con l’arte e con i videogame, sempre con l’idea che il videogame sia una specie di organismo vivente. Il terzo esempio potrebbe essere un giardino: vorrei essere un giardino. Non posso non pensare ad Alexandra Daisy Ginsberg. È anche interessante, in termini di organismi viventi, che molti artisti siano ora interessati a fare agricoltura, come nel caso di Yinka Shonibare, che ha avviato una residenza e una fattoria in Nigeria facendo della fattoria un’opera d’arte, ma penso anche a Otobong Nkanga, senza dimenticare che tutto questo è stato anticipato a Roma dal grande Gianfranco Baruchello, che nel 1973 ha fondato la società Agricola Cornelia con lo scopo sociale di coltivare la terra.
Lei ha fatto oltre 4000 interviste. Come si è sentito a raccontarsi a Gianluigi Ricuperati?
Quello che mi interessa è che il mio lavoro sia utile per l’arte e per la società, così vale anche per questo libro scritto con Gianluigi Ricuperati. Spero possa essere una sorta di scatola degli attrezzi perché ha molto a che fare con la trasmissione dell’arte a tutti i livelli, quindi non confinata in un museo, un po’ come facevo all’inizio con le mie mostre in cucina, un luogo di scambio. Quando ho iniziato non ho aspettato che qualcuno mi commissionasse una mostra in un museo. Questo per me è il concetto di do it yourself, un messaggio da trasferire alle nuove generazioni perché per me l’arte deve essere transgenerazionale.
Qual è il cuore del suo lavoro?
Il mio lavoro riguarda sempre la produzione di realtà, realizzare i progetti irrealizzati degli artisti e lavorare su progetti urgenti. Ma che cos’è urgente? L’ecologia, i progetti civici, portare gli artisti nella società e non solo nei musei e i nuovi esperimenti tra arte e tecnologia. Come ha detto Alexis Pauline Gumbs, abbiamo la possibilità come specie di decostruire e ricostruire i nostri schemi di pensiero e di narrazione affinché siano in linea con la comunità e l’ambiente in opposizione a un approccio dominante e capitalista verso l’ambiente. Come farlo? Remember Nature. 140 Artists’ Ideas for Planet Earth raccoglie 140 risposte di 140 artisti. Possiamo dire che nel libro edito da Marsilio un buon numero di questi progetti di arte per l’ambiente sono stati per la prima volta pubblicati in italiano.
A chi è rivolto il libro?
È un libro che spero sia utile alle nuove generazioni. Non racconto la mia storia fine a se stessa, ma per le nuove generazioni. Sono nato in una famiglia svizzera che non era interessata all’arte e non aveva l’abitudine di andare nei musei, ma l’arte è arrivata a me attraverso diversi stimoli: i disegni in grafite della guaritrice e naturopata Emma Kunz, che utilizzava il pendolo per poi rappresentare graficamente le risposte che riceveva, il Montreux Jazz Festival, che nel 1983 invitò Keith Hearing e affisse i suoi poster in tutta la Svizzera, anche nella stazione dei treni. Tutto questo ha aperto un mondo davanti a me. Dobbiamo credere nella potenzialità trasformativa dell’arte. Il filosofo Byung-chul Han sta scrivendo un libro sulla speranza. Lui sostiene che la speranza si riferisca a qualcosa che non è ancora nato, concetto che mi incuriosisce dato che io sono interessato proprio ai progetti non realizzati. La speranza che ciò che non è ancora realizzato lo possa ancora essere è quello che spero trasmetta anche questo libro, ovvero che ci sia ancora la possibilità di raccontare un mondo diverso e una società diversa con entusiasmo.
BIO
Hans Ulrich Obrist (1968), svizzero, è tra i più celebri curatori al mondo. Attualmente dirige la Serpentine Gallery di Londra. È autore di diversi libri e cataloghi, tra cui Fare una mostra (2020) e Vite degli artisti, vite degli architetti (2017).
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