Sperimentare con la fotografia: tutta la storia di Nino Migliori
Racconti da MArte
Ho sempre pensato alla fotografia di Nino Migliori come a qualcosa in perenne movimento.
Un flusso continuo di idee, progetti, sperimentazioni, ma anche precise prese di posizione etiche e politiche accompagnate da un ideale estetico pronto a cambiare direzione, perché sempre al seguito del contenuto. Ho guardato lo svolgersi del suo operato con immensa curiosità. Più volte ho tentato di inserirlo in contesti convenzionali, ma con lui le scorciatoie non funzionano.
Il tentativo classificatorio in generi è risultato ogni volta instabile, frammentario e incompleto, perché Migliori ha sempre agito con un obiettivo unico e irrinunciabile: spostare sempre più in là i confini della fotografia, riscrivendo di continuo la grammatica delle immagini, aprendo e legittimando filoni di indagine prima di lui sconosciuti. La sua “ricerca senza fine” è una condizione mentale, uno stato fisico. Un bisogno di conoscenza. Una necessità di confronto continuo. Tra le sue mani la fotografia è stata amata e maltrattata. Spogliata e rivestita. Bruciata, dimenticata e riciclata. Ripudiata e nuovamente accolta. Le sue invenzioni sono tutte all’insegna dello svelamento, per una visione mai univoca. E la differenza tra il vedere e il guardare segna il paradigma dei cambiamenti. Quando è sulla via Emilia si cala in testa un elmetto per riprendere simultaneamente, con due fotocamere, il paesaggio che si trova davanti e dietro di lui. La visione intenzionale vale tanto quanto la meraviglia del caso. Per questo, lo stupore occupa un posto privilegiato nel suo alfabeto visivo. Il suo lessico è senza superlativi ed è traducibile in tutte le lingue del mondo. Non c’è mai giudizio, non c’è supremazia; ci sono, semmai, le polaroid manipolate, i ritratti realizzati alla luce di un fiammifero. Ci sono le trasfigurazioni di paesaggi, volti e architetture, ed è sempre lo svolgimento di uno sviluppo armonico, un dono senza nulla in cambio. Poi c’è la serie delle Cancellazioni (dal 1954) a salvare l’importanza del gesto, della conservazione della memoria. Ci sono i Muri dei suoi inizi, il suo via libera a un dialogo infinito capace di dare vita a mille storie diverse. Ci sono i progetti dedicati agli Oggetti di Morandi e a I luoghi di Morandi (1985). Insomma, ci sono tutta la poesia e tutta l’intensità di chi ha deciso di vivere con la fotografia intesa come un sentimento e non come uno strumento.
Data questa premessa, si potrà comprendere la vastità del lavoro di Migliori. Per questa occasione editoriale, grazie ai preziosi consigli di Marina Truant, che ha seguito con passione, passo dopo passo, questo percorso, ho tentato di costruire alcune mappe concettuali per potermi orientare in quello che considero un vero e proprio “universo Migliori” e per offrirne una sintesi di comprensione. Ho proceduto non solo elencando e datando con precisione le tante produzioni, ma cercando il sostegno di altrettante referenze artistiche, culturali, poetiche, sociali e politiche. Un lavoro certamente non completo, anzi, solo forse appena accennato, che spero possa essere utile a indicare possibili strade di lettura.
Denis Curti
Testo tratto dal catalogo Nino Migliori. Una ricerca senza fine, Marsilio Arte, Venezia 2024
Il tentativo classificatorio in generi è risultato ogni volta instabile, frammentario e incompleto, perché Migliori ha sempre agito con un obiettivo unico e irrinunciabile: spostare sempre più in là i confini della fotografia, riscrivendo di continuo la grammatica delle immagini, aprendo e legittimando filoni di indagine prima di lui sconosciuti. La sua “ricerca senza fine” è una condizione mentale, uno stato fisico. Un bisogno di conoscenza. Una necessità di confronto continuo. Tra le sue mani la fotografia è stata amata e maltrattata. Spogliata e rivestita. Bruciata, dimenticata e riciclata. Ripudiata e nuovamente accolta. Le sue invenzioni sono tutte all’insegna dello svelamento, per una visione mai univoca. E la differenza tra il vedere e il guardare segna il paradigma dei cambiamenti. Quando è sulla via Emilia si cala in testa un elmetto per riprendere simultaneamente, con due fotocamere, il paesaggio che si trova davanti e dietro di lui. La visione intenzionale vale tanto quanto la meraviglia del caso. Per questo, lo stupore occupa un posto privilegiato nel suo alfabeto visivo. Il suo lessico è senza superlativi ed è traducibile in tutte le lingue del mondo. Non c’è mai giudizio, non c’è supremazia; ci sono, semmai, le polaroid manipolate, i ritratti realizzati alla luce di un fiammifero. Ci sono le trasfigurazioni di paesaggi, volti e architetture, ed è sempre lo svolgimento di uno sviluppo armonico, un dono senza nulla in cambio. Poi c’è la serie delle Cancellazioni (dal 1954) a salvare l’importanza del gesto, della conservazione della memoria. Ci sono i Muri dei suoi inizi, il suo via libera a un dialogo infinito capace di dare vita a mille storie diverse. Ci sono i progetti dedicati agli Oggetti di Morandi e a I luoghi di Morandi (1985). Insomma, ci sono tutta la poesia e tutta l’intensità di chi ha deciso di vivere con la fotografia intesa come un sentimento e non come uno strumento.
Data questa premessa, si potrà comprendere la vastità del lavoro di Migliori. Per questa occasione editoriale, grazie ai preziosi consigli di Marina Truant, che ha seguito con passione, passo dopo passo, questo percorso, ho tentato di costruire alcune mappe concettuali per potermi orientare in quello che considero un vero e proprio “universo Migliori” e per offrirne una sintesi di comprensione. Ho proceduto non solo elencando e datando con precisione le tante produzioni, ma cercando il sostegno di altrettante referenze artistiche, culturali, poetiche, sociali e politiche. Un lavoro certamente non completo, anzi, solo forse appena accennato, che spero possa essere utile a indicare possibili strade di lettura.
Denis Curti
Testo tratto dal catalogo Nino Migliori. Una ricerca senza fine, Marsilio Arte, Venezia 2024