Indiscusso punto di riferimento per la cultura del progetto, Triennale Milano è la protagonista del volume, a cura di Mario Piazza, che ne ripercorre la storia attraverso i manifesti ufficiali delle Esposizioni Internazionali andate in scena dal 1923 al 2022. Qui ve ne proponiamo una selezione
1923. IL MANIFESTO DI ALDO SCARZELLA
Il manifesto per la 1a Mostra internazionale delle arti decorative di Monza è il risultato della selezione fra diversi bozzetti presentati da settanta artisti e illustratori che parteciparono alla gara. È questo il criterio scelto, che diventerà prassi nelle successive Biennali, al fine di affidare gli incarichi per il progetto del manifesto ufficiale, della copertina del catalogo e dei diplomi per gli espositori. La forte iconicità della proposta del pittore Aldo Scarzella (1890 Millesimo, Savona – 1962 Vignale Monferrato, Alessandria) prevalse nella scelta.
L’idea è rappresentare la mostra con un simbolo, la corona ferrea, custodita nella cappella della regina Teodolinda nel Duomo di Monza, e usarlo come un segnale per marcare un inizio. Un viatico per sancire un possibile incontro tra la tradizione folklorica dell’artigianato artistico e il futuro sviluppo industriale. Nella realtà l’esposizione era ancora legata alla selezione e presentazione di oggetti e prodotti di scuole artigianali delle diverse regioni del Paese, con una filosofia opposta all’atteggiamento dei critici modernisti e al reale sviluppo di una qualità estetica industriale. Il manifesto di Scarzella è una magnifica illustrazione e un’immagine simbolica, una sorta di vessillo della tradizione per un contesto ancora tutto da costruire. Il manifesto è stampato a tre colori, pone la corona al centro e in alto, disegnata in maniera impressionistica con due tonalità di oro per rendere efficacemente le lavorazioni a sbalzo del metallo. È attraversata dal monogramma cristologico delineato da una fiamma che si eleva dritta al centro e circonda la corona. Il suo corso è modellato da sinuose gocciolature. Un campo di intenso blu fa da sfondo a tutto il manifesto. Nella parte bassa è posizionata la titolazione, scelta che diventerà una costante nei successivi manifesti per la Biennale. Il testo in tutto maiuscolo è composto in Inkunabula, un carattere riproposto nel 1911 dalla Società Augusta, una fonderia di Torino, reincidendo i punzoni dei tipi medievali usati da Johannes Müller von Königsberg, detto il Regiomontano, per la stampa a Venezia nel 1476 del Kalendario astronomico e astrologico. Il rilancio di questo carattere lo si deve soprattutto a Raffaello Bertieri, che lo promosse e usò ampiamente per la composizione della rivista «Il risorgimento grafico» e per i suoi saggi e libri sui caratteri tipografici e la storia del libro. In quegli anni oltre a essere direttore della Scuola del libro all’Umanitaria, Bertieri è curatore con Augusto Calabi e Carlo Vicenzi della Mostra del libro alla Biennale del 1923. Scarzella, originario della Liguria aveva frequentato la Scuola libera del nudo all’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove in seguito divenne professore e presidente per oltre nove anni. Studiò scultura con Arturo Dazzi e si dedicò anche al cartellonismo pubblicitario per enti pubblici e aziende. Espose alla Permanente Belle Arti di Torino e di Milano, alla Biennale di Venezia. Alcune sue opere sono presenti nelle collezioni presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara, la Società Adriatica di Elettricità di Venezia, la Cassa di Risparmio di Alessandria e la Pinacoteca municipale di Casale Monferrato, città dove visse l’ultima parte della sua vita. Nell’ambito della Biennale del 1923, nel Belvedere, a cui si accedeva dal secondo piano nobile della Villa Reale di Monza era stata allestita una mostra di manifesti murali e bozzetti di Aldo Scarzella e Margherita St. Lerche.
1947. IL MANIFESTO DI MAX HUBER
L’immagine della prima Esposizione Internazionale del dopoguerra è affidata dal commissario straordinario, l’architetto Piero Bottoni, ad Albe Steiner (1913 Milano – 1974 Raffadali, Agrigento), e Max Huber (1919 Baar, Svizzera – 1992 Mendrisio). Il tema è la ricostruzione non solo materiale della città e del Paese, anche quella civile e sociale. Ma è la concretezza che caratterizza il programma. Lo stesso Palazzo dell’Arte era stato danneggiato dai bombardamenti e molte cose si sono perse, come gli archivi del Centro Studi, ma due anni dopo la fine della guerra il ripristino edilizio del palazzo è completato. In linea con l’ottimismo del fare concretamente per ricostruire, il programma di Bottoni punta sul tema dell’abitazione. «La Triennale» scrive nella guida «polarizzerà tutto il suo sforzo nell’unico tema della casa, della casa per tutti nelle sue varie accezioni».
Il progetto simbolo è il QT8, il quartiere sperimentale che sorgerà su terreni comunali e diventerà la testimonianza del lavoro comune di oltre cento architetti e progettisti a fronte della grave situazione abitativa della Milano postbellica. Si chiedeva quindi un’adesione al progetto al di là della stretta competenza tecnica. In quest’ottica va letto l’incarico a Steiner e Huber, due grafici moderni, ma soprattutto partigiani e antifascisti. Il lavoro inizia assieme, ma è portato a termine da Huber, in quanto Steiner nel 1946 parte alla volta del Messico e dell’esperienza del Taller de Grafica Popular. A Città del Messico, in qualità di collaboratore della Commissione tecnica per la preparazione dell’8a Triennale, Steiner aveva avuto incarico da Bottoni di trattare con il governo messicano per chiedere la sua adesione e partecipazione.
I progetti preparatori realizzati da Steiner confermano una linea comune dei due progettisti, soprattutto nelle scelte di base. La scelta del grande T8 in un carattere lineare è presente in
entrambi i progetti anche se con font differenti, poi negli studi di Steiner per linee di artefatti (come pubblicazioni e diplomi) ci sono varianti come quella di disporre verticalmente la sigla T8 o come l’introduzione di immagini fotografiche scontornate o di segni grafici lineari come elementi di decorazione.
Il progetto definitivo di Huber per il manifesto e anche per il marchio della 8a Triennale finalizza questi studi preparatori e li monta con una logica complessiva di costruzione coordinata. Ma fa anche un’operazione di «distillazione», porta a una perfetta maturazione le idee di fondo e le codifica in maniera esemplare. Per il manifesto sceglie il formato orizzontale, un formato cinematografico. È l’unico caso nella serie dei ventitré manifesti ufficiali delle Esposizioni Internazionali. Le scelte per il manifesto sono semplici, ma ispirate. Esprimono
temi del moderno, ma anche la necessità di un candore francescano nel rimettersi all’opera. È innanzitutto un manifesto pieno di dignità quello di Huber per l’8a Triennale. Sono dismesse retorica, monumentalità, propaganda, un manifesto che quasi potrebbe essere l’ingrandimento di un biglietto da visita. L’integerrimo segnale di un mondo da rifare. La dottrina tipografica della nuova grafica svizzera trova qui una messa in pagina autorevole, senza concessioni a divagazioni o decori, punta all’essenziale. Vuole comunicare purezza
d’intenti per riavviare la storia delle Esposizioni Internazionali. Un campo quadrato azzurro ospita la sigla T8 in negativo bianco e composta in Akzidenz Grotesk nero tondo, l’altro terzo del manifesto è lasciato a fondo bianco. Il montaggio dei testi sempre in Akzidenz Grotesk ma in tre corpi diversi: il maggiore per «1947», uno intermedio per «ottava Triennale di Milano» che è allineato sotto l’asta orizzontale della T e per «primavera estate» che parte sotto l’8 e si allinea a bandiera destra con gli altri. Infine un blocco di testo in corpo più piccolo, su quattro righe a bandiera sinistra. I testi sono stampati in nero sopra i campi bianchi o azzurri del manifesto. Chiarezza, ritmo, rigore e una moderna semplicità per ricominciare.
1968. IL MANIFESTO DI ALBE STEINER
La 14a Triennale vuole affrontare l’ingombrante tema della condizione contemporanea. Il titolo proposto da Giancarlo De Carlo è Il grande numero, inteso come raffigurazione e indice dei processi sociali, economici e ambientali generati dalla forte industrializzazione e dal benessere diffuso. Tema complesso, che implicava maggiori confronti fra discipline, non solo legate alla cultura del progetto, e poneva la riflessione sull’importanza del processo più che sull’opera realizzata, sul tema del contesto ambientale e sul design come dispositivo non
solo per produrre merci. Il tema venne infatti dibattuto con un’altra ipotesi di lavoro proposta da Aldo Rossi, più strettamente disciplinare sugli esiti del progetto architettonico. Il gruppo di lavoro di De Carlo era composto da Alberto Rosselli, Albe Steiner, Vittoriano Viganò, Marcello Vittorini, Marco Zanuso. Nel maggio 1968 il clima politico generale era di ampie ribellioni giovanili, mobilitazioni studentesche e occupazioni di scuole, università e istituzioni. È quello
che accadde anche il giorno dell’inaugurazione della 14a Triennale quando un gruppo di studenti, artisti e operai occuparono il Palazzo dell’Arte e bloccarono fino al 29 giugno lo svolgimento della mostra, chiedendo «la gestione democratica diretta delle istituzioni culturali
e dei pubblici luoghi di cultura». Era un passaggio obbligato che aveva la necessità di essere intransigente anche nei confronti di un pensiero come quello di De Carlo che vedeva «una grande differenza […] tra il grande numero che caratterizza una società pensante, dove gli
individui continuano a essere protagonisti degli eventi, e la civiltà di massa che è invece una civiltà omogeneizzata, composta da individui omologati ai poteri».
In questo clima il manifesto progettato da Steiner ci appare come una tabula rasa, un foglio intonso su cui cominciare a scrivere le risposte alle domande poste da una società in movimento. Il manifesto si caratterizza per la sua estrema semplicità, per la massima riduzione di linee per costruire i campi visivi della lettera e della cifra. Esse occupano l’intera superficie del foglio, sono marchio e manifesto. Lica Steiner diceva in proposito: «T14, la lettera e i due numeri sanno stare insieme». Per raggiungere questa complicità,
questa stretta integrazione, il lavoro preparatorio di Steiner è stato esteso, come spesso accadeva quando cercava un segno che dovesse rispondere alle esigenze d’uso e soprattutto di contenuto, esprimere il soggetto che comunica. Diversi sono gli studi preparatori, ognuno dei quali è il risultato ottenuto seguendo una particolare intenzione di visualizzazione. L’obiettivo da raggiungere era la simbiosi fra immagine e marchio, che potesse nello stesso tempo essere
utilizzata per comunicare l’evento culturale con un manifesto d’affissione o con una lettera su carta intestata. Doveva anche essere un segno sempre individuabile nelle sue svariate applicazioni e quindi facilmente identificabile. Le ricerche preparatorie puntano alla necessità
della sintesi, lavorando con due colori (il bianco e il nero o altre coppie cromatiche) per giungere a un’armonia di pieni e di vuoti che con una sigla non solo esprima l’identità ma comunichi un messaggio.
Questa semplicità ottenuta dall’ottimizzazione delle proporzioni degli elementi, messe a verifica con gli strumenti per informare e con la stessa facciata del Palazzo dell’Arte, come per avere un ultimo livello di conferma, è anche una sorta di didattica del progetto. Non è
un caso che molti esempi dei progetti fatti per Triennale siano usati da Albe e Lica Steiner nella loro Storia e tecnica della cartellonistica pubblicata a fascicoli da Accademia srl nel 1972, uno dei primi manuali di grafica in Italia.
1988. IL MANIFESTO DI ITALO LUPI
La 17a Triennale, che si inaugura nel settembre 1988, è stata preceduta da un ampio ciclo di esposizioni sulla linea del modello inaugurato dalla sedicesima edizione. Si conferma Italo Lupi come consulente e nei fatti art director. In questa serie di manifesti Lupi prende in esame anche il tema del marchio istituzionale, introducendo delle varianti al marchio progettato con Alberto Marangoni. Si pone quindi il tema di un nuovo marchio istituzionale e lo si affronta con un concorso a inviti. Nel 1985 Lupi risulta vincitore della gara, il suo marchio viene scelto fra altre proposte da una giuria in cui figuravano: Eugenio Peggio, Mario Bellini, Pierluigi Nicolin, Michele Provinciali, Gillo Dorfles. Il marchio mette la facciata stilizzata del Palazzo
dell’Arte di Giovanni Muzio sopra una T lineare e geometrica, uno stemma dal sapore araldico e architettonico. La giuria giustificò la scelta anche per questa faccia araldica, che venne invece criticata dalla stampa («Immobile, goffo, eppur vincente» titolò per esempio
«il Sole 24 Ore»). In realtà dopo anni e anni di utilizzo e di cambiamenti di orientamento e politica culturale dell’ente, ma anche di rinnovamento e riordino delle sue strutture edilizie, questo marchio ha retto fino al 2019. E anche tutto il dispositivo visivo allora progettato
per l’immagine della 17a Triennale ha funzionato, perché elegantemente autorevole, un’opera aperta, dove l’istanza registica è la chiave di volta del sistema, ma si appoggia su un impianto formale molto ben disegnato. Un’immagine niente affatto paludata, da «istituzione del design», ma espressivamente ludica, curiosa e inventiva.
Il manifesto ufficiale rappresenta il primo prototipo di questa estesa produzione. Per certi versi si riprende il motivo di cifra e lettera dei precedenti manifesti, ma in quest’occasione è anche una sorta di esercizio di stile sul modello del nuovo marchio. Al posto della T lineare,
Lupi ne sceglie una graziata, in Bodoni condensed, sopra cui appoggia a giustezza il numero romano XVII, sempre in Bodoni condensed, poi pone un filetto dello spessore della base della T e infine una grande sfera a effetto tridimensionale, con punti illuminati e altri in ombra. Una versione è sulle tonalità del verde, un’altra in colore rosso. Il tema è Le città del mondo e il futuro delle metropoli, la sintesi di Lupi è una costruzione di tipografia postmoderna, un capriccio alla Borromini che attiri, delizi e faccia riflettere. Nella parte superiore del manifesto c’è una fascia nera, il sistema applicativo dell’identità dove è contenuto il marchio, con la T che si fonde nel colore e, con un lettering spaziato, l’intestazione dell’ente. È il sistema che verrà applicato negli artefatti del sistema comunicativo, che già nel primo manifesto per la rassegna principale mostra l’assoluta bravura di Lupi. Le città e le metropoli del mondo diventano un avvincente panorama tipografico, svettano come edifici alti visti dal cielo, presi in volo, punteggiati con sapienza da accenni di colori e dai toni ombrosi ottenuti con la reiterazione del montaggio a grattacielo delle singole lettere. Un gioco, le lettere che si fanno immagine e accostando manifesto a manifesto formano un diorama infinito. Rivedendo nel loro insieme i progetti realizzati per la 17a Triennale, si apprezza l’impianto visivo, ricco di riferimenti, modulare ma mai schematico, capace di accogliere sollecitazioni plurime. Si percepisce il senso di un rigore raggiunto e risolto a monte, così da lasciare un’ampia libertà di azione e movimento. Di gestire il piano visivo con duttilità e discrezionalità sottrattiva. Nella grafica
di Lupi si fonde perfettamente il sentimento della grafica italiana: quel costruire la pagina o lo spazio con una grammatica generativa, fantasiosa e piena di colore, e quella brillantezza narrativa che gioca a tutto campo, sorprendente e incantata.
2001. IL MANIFESTO DI MAURO PANZERI
Per la prima Esposizione Internazionale del nuovo millennio si presenta un nuovo tema da affrontare progettualmente, anche il carattere anomalo dell’idea curatoriale. Diversamente dalle precedenti edizioni, la 20a Triennale, diretta da Augusto Morello, si sviluppa con
un ciclo di mostre ed eventi per un triennio di attività, dal 2001 al 2004. Quindi il manifesto ufficiale deve annunciare questo programma, con un unico comun denominatore, La memoria e il futuro, il tentativo di riflettere sulle problematiche della contemporaneità e del futuro senza dimenticare i lasciti del passato. Per Morello, «il farsi dei futuri non può prescindere dalle scelte della memoria». Andavano perciò pensati un sistema, o meglio delle regole visive che dovevano durare nel tempo, senza far perdere l’identità. Il progetto viene affidato a Mauro Panzeri (1954 Lecco) che ha lavorato con Pier Antonio Zanini e Mauro Santella, nel suo studio GrafCo3 di Milano. Il progetto sembra perseguire non la costruzione di una identità per un’esposizione culturale, quanto la messa a punto di un sistema per definire il corpo visivo di una processualità. La risposta progettuale prevede un segno compatto, molto visibile, messo a punto con una tipografia contemporanea. Il carattere scelto è il Moonbase Alpha disegnato nel 1991 dal grafico svizzero Cornel Windlin. È un carattere dell’era digitale disegnato sulle forme quadrate dei pixel e arrotondando gli angoli. Il suo DNA digitale offriva una leggibilità non convenzionale. La sigla XXT si confermava così come assolutamente spiazzante, nessun rimando a corollari storici o celebrativi, romanità o neoclassicismo bodoniano, il futuro del digitale tipografico entrava in Triennale imponendo uno sguardo diverso, meno affermativo, ma molto più esplorativo. Una sonda nel futuro verso nuovi territori. La soluzione per il manifesto introduce dunque una terza via rispetto alla prassi finora vista. La maggior parte delle soluzioni proposte a ogni Triennale modella con uno stile la sigla, viste nel loro insieme
sono un variegato catalogo di esercizi di stile; l’altra possibilità, quella di Bob Noorda per la 19a, sceglie invece di illustrare il campo tematico al posto della sigla. Nel progetto di Panzeri c’è certo una messa a punto formale del tema di numero + T, ma anche una sua relativizzazione nel manifesto. Non è il protagonista. Lo spazio maggiore è destinato a quella che possiamo definire ancora come illustrazione, ma assolutamente lontana da quelle delle prime Biennali, e anche dall’artisticità di Eugenio Carmi e a suo modo di Roberto Sambonet.
L’illustrazione nel manifesto è una sorta di mappa concettuale, certo non scientifica, ma che usa gli stilemi di una razionalità cartografica. È una mappa non-mappa. È il tentativo (riuscito) di dare un volto possibile a una questione di metodo, ovvero progettare il processo. Per
un’affinità obliqua l’altro progetto che più si avvicina a questa idea è forse quello di Italo Lupi e Alberto Marangoni per la 16a Triennale dove la T è di fatto una gradevole visualizzazione informativa, un contenitore di dati. La mappa concettuale di Panzeri indaga quindi in una
zona meno esplorata della visualizzazione per manifesti, evitando la pennellata d’artista, ma anche quella da grafico. È un territorio che vuole fare i conti con la contemporaneità e con la valenza anche estetica di dispositivi che stanno più in altre e solide discipline. Un parallelo
affine a questo approccio rappresentativo può essere il grafo delle famiglie di lemmi per l’Enciclopedia Einaudi (1982), formulato dai curatori scientifici dell’opera e messo in pagina da Germano Facetti.
2022. IL MANIFESTO DI 2X4
La 23a Esposizione Internazionale vuole aprirsi e confrontarsi tra punti di vista e di ricerca differenti attorno all’affascinante tema, sintetizzato dal titolo Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries. I misteri non ancora conosciuti e quello che ancora «non sappiamo
di non sapere» investono tutte le discipline, dalla scienza all’arte, dal design alla genetica, dall’astrofisica alla botanica. Per esplorare questo magma e curare l’esposizione, l’incarico viene dato all’astrofisica Ersilia Vaudo, con l’immaginifica ambizione di darsi «la possibilità di
rovesciare la nostra idea di mondo». Per dare una forma visiva e comunicare la 23a edizione la strada scelta è un concorso a inviti a sei studi, che, dopo una prima fase in parallelo con la messa a punto del concept espositivo, si è ridotta a tre proposte da parte degli studi
2×4 (New York), L2M3 (Stoccarda) e Omnigroup (Losanna).
Proposte interessanti, con originali punti di vista, ma a essere scelta dal comitato di selezione è la proposta di 2_4. Partendo da una frase del filosofo e biologo britannico Thomas Henry Huxley: «Il conosciuto è finito, l’ignoto è infinito; intellettualmente ci troviamo su un isolotto
in mezzo a un oceano illimitato di inspiegabilità», il team di progettisti si pone la questione di trovare una metafora visiva che sia capace di descrivere il vuoto. Il programma di lavoro è prioritariamente razionale.
L’obiettivo è di definire una piattaforma da cui partire e lasciare aperta la possibilità di immaginare. Il mistero del non conosciuto è ottenuto in primo luogo con la costruzione di un’atmosfera visiva. Il manifesto ufficiale alla fine realizzato chiede una pausa, un momento
di azzeramento, la necessità di un accostamento silenzioso. In questo modo apre a una riflessione poetica. È la soglia per prendere le misure e la consapevolezza della finitezza umana rispetto all’inaspettato che l’infinito ci offre. È quindi una dichiarazione, dove la grafica è un efficiente strumento di formalizzazione, ma il cui cuore sta nel rendere possibile una visione. Ha a che fare più con il cinema, la crossmedialità, la fantascienza. Un frame da Stanley Kubrick o da Andrej Tarkovskij. È la perfezione della visione che colpisce, compito della
grafica è di non fare errori di cesello. Tutto ciò deriva da un ragionamento su come si può progettare una visione. Cosa che i designer di 2×4 spiegano con grande efficacia nel catalogo. Poi c’è la fascinazione dell’eleganza della scrittura tipografica, con un carattere disegnato
appositamente su modelli settecenteschi dell’incisore belga Jacques François Rosart (1714-1777), specializzato in tipi ornamentali e per titolazioni. La luce dei Lumi modella le lettere e gioca con le loro corrispondenze, facendo quasi svanire le rotonde O, accennate solo da un
lieve profilo, come filiformi mezzelune. Sono loro che spingono alla visualizzazione di due grandi e misteriose sfere, irraggiate nei loro profili da scie cromatiche, da una luminosità evidente conducono alla massa nera che si amalgama con il fondo del manifesto.
Due pianeti vicini e sovrapposti, uno con le tonalità dei rosa-arancio, l’altro con quelle dell’acquamarina-blu. Quello che non si conosce nel nostro mondo e quello che non ci conosce in altri mondi. Per 2×4 il progetto ha «il dovere di aggiungere profondità e significato ai contenuti che gli viene richiesto di trasmettere. Il design è, in fondo, una sorta di secondo testo, un valore aggiunto che si sovrappone al contenuto originale». Un saggio monito per poter dare un volto, convincente e poetico, all’ignoto e farlo amico.
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