Le Gallerie dell’Accademia di Venezia ospitano la mostra postuma di un’artista che individuò nel vetro la sua fonte di ispirazione. Oltre trenta opere condensano gli ultimi anni di attività di Laura de Santillana. A parlare di lei è il nipote Leon Diaz de Santillana, presidente della Fondazione de Santillana Stichting
È un legame simile all’amore quello che univa Laura de Santillana alla materia delle sue opere: il vetro. Scomparsa nel 2019, determinazione, talento ed eleganza accompagnarono la sua storia artistica, ripercorsa in questa intervista da chi la conosceva bene.
Che rapporto aveva con sua zia Laura?
Lei era come una seconda madre ‒ o padre ‒ per me. Cercava sempre, in modo discreto, di essere aggiornata sui miei progetti e mi orientava con piccoli commenti molto puntuali, facendomi arrivare anche i suoi pensieri attraverso mio padre. Mi rendo conto ora che era incredibilmente legata a suo fratello Alessandro (mio padre). Loro parlavano di tutto, quindi mi viene da pensare che lei abbia avuto un ruolo fondamentale nella mia crescita personale. In questo senso, Laura non è mai stata in grado di avere figli, e, nonostante fosse molto silenziosa e riservata, era spesso il centro della famiglia.
Che cosa ricorda di lei?
Mi succede troppo spesso di riscoprire il modo in cui mi ricordo di lei ‒ cosa abbastanza strana vista la sua scomparsa.
L’esplorazione continua delle sue opere d’arte, fotografie, disegni e video nel mio lavoro come presidente mi aiuta a conoscerla da altri punti di vista, e questo modifica attivamente il mio ricordo di lei. Questo profondo esame che svolgo giornalmente mi permette di vedere un’immagine più autentica e complessa di Laura. Lei non è più la “persona” che ho conosciuto nella mia infanzia (un periodo che spesso determina come vediamo le figure familiari per tutta la nostra vita adulta); Laura è diventata una figura complessa e stratificata che svolge una molteplicità di ruoli, a suo modo, contemporaneamente: dalla zia affettuosa all’artista misteriosa all’amica di fiducia o la direttrice artistica. Interagire con persone che l’hanno conosciuta in questi ruoli mi ha rivelato un individuo molto più ricco di quanto credevo, pur evidenziando anche certe contraddizioni.
C’è un ricordo di lei che le è rimasto impresso più di altri?
Un ricordo che diventa più dettagliato con il passare del tempo riguarda un incontro con lei e mio padre a Seattle nel 2012. I due si trovavano lì per una residenza al Museum of Glass di Tacoma, e tutti soggiornavamo in un incantevole cottage vicino al lago. Ricordo di essere diventato impaziente una mattina mentre lei prendeva il suo tempo per prepararsi, nonostante avessimo un’intera squadra in attesa ‒ soffiatori di vetro, amministratori, videografi e altri al museo. E non era neanche poco, ma 45 minuti! All’epoca, la sua preparazione lenta e quasi da diva era frustrante, ma ora la vedo come un modo deliberato ed elegante di affermare il controllo, di stabilire una gerarchia prima ancora del suo arrivo in fornace.
Infatti, il suo “strategico tardare” non era semplicemente un capriccio, ma un atto che le donava autorità, una tattica che probabilmente aveva appreso come giovane donna in un’industria guidata dagli uomini. Forse è così che lei, essendo una persona di poche parole e molta contemplazione, riusciva a guadagnare entro la fine della giornata il rispetto dei suoi collaboratori, i quali ascoltavano con attenzione ogni suo minimo segnale.
Come descriverebbe il suo metodo di lavoro?
Riscriveva le regole del gioco, cosa che mise a disagio i suoi collaboratori, ma che contribuiva enormemente a compiere la sua visione artistica. Ad esempio, una volta, ancora a Tacoma, ha fatto suonare della musica indiana durante una sessione lavorativa in fornace, creando un netto contrasto con la tradizione del vetro in quella città e dello “studio glass”, che è caratterizzato da un individualismo spartano e da una cultura operaia. Quella scelta inaspettata mise in evidenza come lei fosse a suo agio nell’impostare il proprio tono, le proprie regole e la propria esperienza sensoriale per creare un’atmosfera nella quale si immergeva. In tal modo poteva spingere gli artigiani oltre le loro zone di comfort, anche a livello tecnico. Questa determinazione riservata a realizzare la sua visione artistica diede vita a un processo cooperativo di problem-solving e innovazione, mostrando a tutti la sua capacità di trasformare interazioni ordinarie in esperienze straordinarie. I suoi metodi non erano solo una sfida alle aspettative con eleganza e carisma; ispiravano gli altri a vedere il mondo ‒ e il vetro ‒ attraverso il suo particolare punto di vista.
C’è un’opera alla quale sua zia era particolarmente legata e perché?
Lei non si legava alle opere. Piuttosto entrava in una conversazione con loro che poteva durare settimane o anche anni per, come diceva lei, “capire l’opera”. Una volta capito cosa l’opera le volesse dire, la disponeva nella sua “libreria privata”, che potete immaginare come una libreria che mostra solo il dorso delle opere, come se fossero dei libri. All’interno di questa libreria ci sono diverse opere particolarmente interessanti, tra cui una che ho associato a lei e che trovo molto emblematica. Jacob et l’ange, un titolo scelto da lei stessa per una scultura, cosa già piuttosto insolita. Le pareti di vetro in questa opera creano quelle che sembrano essere due figure in comunione, una delle quali pare avere ali; il titolo è un chiaro riferimento alla scena biblica di Giacobbe alle prese con l’angelo. Durante un’intervista del 2015 per The Independent, Laura confessò: “Amiamo il materiale. Siamo prigionieri di questo amore. È come Giacobbe e l’angelo”. Penso che il suo amore per il vetro potrebbe essere visto come un profondo impegno a comprenderne e padroneggiarne le proprietà, ad ascoltare e trovare la bellezza e il potenziale in ogni opera, nonostante le difficoltà e le sfide che dalla sua elaborazione derivano. Questo amore duraturo insieme all’impegno necessario per maneggiarlo potrebbero risultare in un profondo senso di soddisfazione, realizzazione e forse una forma di benedizione, simile alla benedizione finale che l’angelo dà a Giacobbe alla fine della sua lotta.
Che cosa le ha lasciato sua zia come eredità spirituale?
Ci ha lasciato un modo di guardare il mondo. Osservando le sue sculture colgo la logica estetica che le permea, e, attraverso una attenta contemplazione, mi sembra di comprendere le domande metafisiche e spirituali che si poneva, utili tutt’ora a interrogare il mondo che ci circonda.
Leon Diaz de Santillana
BIO
Leon Diaz de Santillana (1989), rappresentante della quarta generazione Venini, è direttore della De Santillana Foundation, creata nel 2021 per preservare l’eredità artistica di Laura de Santillana (1955-2019). Laureato alla UCLA in Antropologia Culturale, è figlio dell’artista Alessandro Diaz de Santillana (1959-2018), nipote del noto designer Ludovico de Santillana, pronipote di Paolo Venini, designer di grande prestigio, e fratello dell’artista contemporanea Alice Diaz de Santillana.
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